Accade ai giorni nostri che a Torino una famiglia coltivi una pianta in balcone, di cui forse ignora il nome, e che decida una sera di usarla come se fosse basilico sulla pasta. Il risultato è una tragedia, l'avvelenamento di tutta la famiglia tranne una persona, quella che il destino ha deciso che doveva salvarsi.
Quella pianta era, probabilmente, Atropa Belladonna.
Quello che penso è che non è stato un accidente o un caso (il caso infatti non esiste). E' un sintomo, di una società che solo cento anni forse tale episodio non sarebbe accaduto, non parliamo nemmeno del medioevo, dove la cultura contadina era profondamente radicata, e tutti bene o male conoscevano le erbe perchè erano gli unici rimedi naturali.
Ma non oggi, non nella nostra società che si illude di sapere tutto, ma in realtà ha indagato in profondità un aspetto del mondo materiale (quello tecnologico) ma ad un prezzo enorme, perdendo di vista le sue origini, ciò che lo rende umano e tutto quello che riguarda il contatto col mondo naturale.
Atropo Belladona, il nome fu dato dai greci. "Atropo" deriva da "a-tropos", "a" è il privativo e "tropo" significa voltare, cambiare, mutare, e quindi significa immutabile, per caratterizzare bene la pianta, e per non lasciare da solo il nome, forse troppo rassicurante, di "belladonna", che stava ad indicare che era usato dalle donne come cosmetico da applicare agli occhi per dargli risalto e lucentezza, in quanto produceva una dilatazione della pupilla.
Non solo, Atropo era la più anziana delle tre sorelle Moire (per i romani, le Parche), divinità della mitologia greca, quella che taglia il filo della vita, ad indicare come la pianta, se assunta in dosi eccessive, conduca alla morte (diverso è il discorso omeopatico dove Belladonna è un importante rimedio, ottenuto tramite diluizioni e dinamizzazioni).
Le Moire Cloto e Lachesi intente a tessere il filo del fato. La Moira Atropo siede nell'attesa inesorabile di reciderlo. John Strudwick, A Golden Thread (Un filo prezioso), 1885 (olio su tela) |
Fonte articolo:
- La Stampa, "Avvelenati a tavola da un’erba scambiata per cime di rapa"
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